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  difesasindacale 4
    Bollettino di coordinamento dei Comunisti Anarchici e Libertari in CGIL n. 4 settembre ’11


“Per forzare i capitalisti a perfezionare le loro macchine …. bisogna alzare i salari e

diminuire le ore di lavoro della macchina di carne e ossa” (1)

Ovvero come impostare battaglie e obiettivi capaci di ricreare rapporti di forza favorevoli

alle classi meno abbienti.

Cristiano Valente

Ci eravamo lasciati a luglio con un quadro politico e sociale quanto mai complicato. L’accordo fra le parti sociali  (CGIL-CISL-UIL e Confindustria) del

28 giugno, giustificato dal gruppo dirigente CGIL come un passo un avanti, seppur con elementi di ambiguità e cadute, rispetto a  l’isolamento in cui la

nostra organizzazione si trovava da oltre due anni ( dall’accordo separato del 22 Gennaio 2009),  era lo scenario in cui ci trovavamo.

In “Difesa Sindacale” dello scorso luglio abbiamo espresso le nostre profonde critiche di merito a tale accordo ed il  nostro netto parere negativo a tale

ipotesi definendola una “proposta non all’altezza dello scontro in atto e che confliggeva con la diffusa percezione a livello di massa di una rinata

fiducia nella lotta nel protagonismo politico dei movimenti e dello stesso movimento operaio”.

Coglievamo e facevamo notare inoltre, la grave ricaduta politica di tale accordo, determinando l’isolamento di  una intera categoria di lavoratori, la FIOM ,

la quale falcidiata duramente dalla crisi economica nei livelli di tenuta occupazionale e salariale, lacerata dalla divisione sindacale sulla vicenda dei finti

referendum fra i lavoratori di Pomigliano e successivamente di Grugliasco e Mirafiori, nella sua stragrande maggioranza si era espressa contro tale ipotesi.

La conferma che l’accordo non era affatto il “mezzo bicchiere pieno”, come qualche dirigente sindacale affermava, ma che in realtà si stava determinando

un tentativo di riposizionamento della CGIL  nell’alveo della collaborazione di classe, in una prospettiva di futuro cambio di governo a guida PD,  isolando

e normalizzando la combattività di alcune categorie e di larghi settori di massa che alla FIOM alla CGIL facevano riferimento, sono state le successive 6

proposte delle  parti sociale del 4 agosto a cui la nostra dirigenza, senza alcun mandato e senza alcuna discussione nei gruppi dirigenti, ha posto la firma

insieme a  CISL UIL e Confindustria .

In tali proposte al primo punto ci si esprime addirittura favorevolmente alla necessità di porre il pareggio di bilancio come obbligo costituzionale e al terzo

punto si indica la necessità di un grande piano di privatizzazioni e liberalizzazioni, in aperta contraddizione con le  battaglie ed indicazioni della stessa CGIL

 all’interno del movimento contro la privatizzazione dell’acqua e soprattutto in totale spregio della risultanza dei quesiti referendari del 27 maggio.

A un mese e mezzo da questi avvenimenti la situazione si è ulteriormente complicata.

Il Governo,  che per oltre tre anni (2008-2010) ha continuato a negare le gravi ricadute occupazionali e salariali della crisi economica mondiale, ha

definito una manovra economica lacrime e sangue da oltre 50 miliardi.

Tale manovra, infatti, al di là delle innumerevoli modifiche apportatevi, le quali forse cambieranno ancora,  ha un sicuro  e netto  tratto antipopolare:

riduzione dei trasferimenti agli enti locali, quindi attacco ai servizi ed al “welfare”,  cioè al salario differito dei lavoratori, riduzione dei diritti e delle minime

garanzie normative e salariali dei lavoratori. Disprezzo totale delle sempre più precarie condizioni di vita e di prospettiva delle nuove generazioni.

Il marchio dichiaratamente classista di questa manovra si evidenza in particolare in due aspetti .

L’articolo 8: cioè possibilità di deroga, fino al suo annullamento, della contrattazione nazionale e superamento dell’art. 18 dello Statuto dei  Lavoratori,

cioè il licenziamento per giusta causa, legalizzando inoltre a posteriori gli accordi che FIAT ha imposto ed estorto con il ricatto tramite i referendum;

l’articolo 9 che prevede la reintroduzione di veri e propri ghetti per le persone disabili, andando a modificare la Legge 68/99 sulla obbligatorietà di

assunzioni dei lavoratori disabili,  dando la possibilità di rispettare le percentuali previste per legge nei singoli siti produttivi, solo a livello nazionale.

Non casualmente nel nostro precedente numero di “Difesa Sindacale” di Giugno, a proposito di  una presunta lungimiranza della nostra classe

imprenditoriale, a cui ancora qualche sindacalista si appellava, facevamo notare come in un documento delle Piccole e Medie aziende, a proposito delle

lamentele e  delle difficoltà lamentate dai  padroncini al  crescere nella  loro struttura organizzativa, si potesse leggere:

“… Noi aggiungiamo che a 15 dipendenti scattano gli obblighi di cui alla legge 68/99, altro stop alla crescita.”
Commentavamo che: “la sensibilità odierna dei nostri padroncini nonostante secoli di ideologia dominante intrisa di commiserevoli carità

cristiana nei confronti degli ultimi e degli indifesi si avvicina più alla logica della rupe Tarpea di Spartana memoria”.

Un giudizio particolarmente forte che pensavamo in parte esagerato e da attribuire più all’estensore materiale del documento, anche se pubblico e 

veicolato tramite il sito ufficiale delle Piccole e Medie Aziende. Ma ahinoi  ci sbagliavamo.

Ci è prontamente venuto alla memoria una affermazione che avevamo letto in gioventù in un famoso manifesto : “il potere politico dello Stato moderno

non è che un comitato il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese”.  (2)

Altro che superamento delle ideologie  o presunta post modernità  nella quale i connotati di classe non sono più identificabili  o dove questi si  perdono e

si confondono a favore di esigenze diverse e plurime di categorie ed individui.

Argomentazione queste che da oltre 30 anni ci hanno ripetuto tutti i presunti filosofi prestati alla politica, economisti, intellettuali,  giornalisti,  preti e

sindacalisti. I padroni, (in questo caso i padroncini), esprimono chiaramente le loro esigenze per una maggiore accumulazione e sfruttamento

( eravamo nel maggio scorso) e se i rapporti di forza lo consentono i governi  eseguono.

E relativamente agli interessi del grande capitale e dei grandi gruppi aziendali l’ultima esternazione dell’A.D. FIAt, Sergio Marchionne, chiarisce

vieppiù la missione esplicita dei Governi.

“Quello che ci serviva ci è stato dato. La mossa che è stata fatta adesso dal Ministro Sacconi con l’articolo 8 è importantissima e comincerà

a dare non solo alla FIAT, ma a tutti quelli che vogliono investire in Italia la certezza che consente di gestire.  (3)  

A fronte di tale situazione  lo sciopero del 6 settembre che il gruppo dirigente della CGIL ha deciso di indire, individuando nella manovra governativa una

scelta recessiva ed ingiusta,  ha avuto il merito di rimettere in moto una dinamica politica  e sociale e che sembrava emarginata e che aveva subito un forte

battuta di arresto, priva di un riferimento organizzativo nazionale, proprio a seguito dell’accordo del 28 giugno e dell’indirizzo comune al Governo delle

parti sociali del 4 agosto.

L’adesione e la partecipazione ai cortei e nei  posti di lavoro è stata ben maggiore dei semplici iscritti CGIL e profonde e significative crepe si sono create

nelle organizzazioni sindacali di CISL e UIL che in molte realtà di fabbrica, nelle RSU  e in molte strutture categoriali provinciali hanno ufficialmente

aderito alla sciopero CGIL. Il Direttivo Nazionale della CGIL del 9 settembre, a seguito del partecipato sciopero del 6, invece di cogliere ed incanalare

la  ancora forte capacità di mobilitazione espressa dal movimento, ha riconfermato l’adesione all’accordo del 28 giugno, chiedendo un bizzarro

pronunciamento alle altre parti sociali  “che renda esplicito che le norme applicabili sono esclusivamente quelle previste dall’accordo stesso.

Di fronte a questo esplicito pronunciamento la Segreteria ha il mandato del Comitato Direttivo per procedere alla sottoscrizione dell’intesa”(4)

Tale indicazione oltre che debole e contraddittoria, in quanto qualsiasi presunto pronunciamento da parte di CISL, UIL o Confindustria potrà essere

rimangiato e non esigibile a fronte del valore legale che l’articolo 8 avrà una volta trasformato in Legge, non è neppure rispettosa del previsto

pronunciamento degli iscritti CGIL, tenendo di conto che il calendario delle consultazioni doveva essere chiuso il 15 settembre e che invece in moltissime

realtà lavorative la consultazione prevista su l’accordo non è stata minimamente avviata.

Non sarebbe stato più lineare e comprensibile sospendere quella firma, anzi ritirare l’adesione a  l’accordo dato che a questo punto, al di là delle diverse

valutazioni espresse,  la derogabilità dei contratti nazionali, viene di fatto sancita dalla obbligatorietà della legge,  continuare la battaglia contro l’articolo 8

così come contro tutta la logica della manovra  economica,  predisporre i lavoratori tutti ad una lunga e tenace battaglia di riconquista degli spazi di

democrazia e di maggior diritti nei singoli posti di lavoro.?

Se è vero, come è vero, che questa manovra è recessiva ed inadeguata, in sostanza di classe, organizziamo la resistenza, affinché il sindacato sia realmente

autonomo dalle compagini governative e anche dai partiti di opposizione ed i giudizi  non siano condizionati dalla adesione politica.

Le condizioni generali dei lavoratori e le prospettive future per le nuove generazioni dipendono dal ribaltamento dei rapporti di forza fra le classi in

antagonismo e dalla definizione di una strategia che sia alla altezza dello scontro.

Nessun bizantinismo sindacale o  politico, ne presunti governi di salvezza nazionale possono garantire che le condizioni delle masse lavoratrici  saranno

salvaguardate dalla furia economica e sociale della crisi del sistema economico capitalistico.

Nessuna unità posticcia con CISL e UIL  in questo momento può garantire una massa maggiore di manovra, come per altro sarebbe giusto e necessario. 

Ciò che occorre è ricercare una unità, al di là e al di fuori delle appartenenze sindacali, che parta dai bisogni e dalle esigenze dei lavoratori nei singoli posti

di lavoro.  Occorre riprendere la strada della militanza sindacale e del coinvolgimento effettivo degli iscritti e dei lavoratori tutti; ridare alle assemblee dei

lavoratori la capacità di elaborare e di dettare i tempi delle battaglie e delle lotte; riprendere il proselitismo sindacale nei singoli posti di lavoro; occorre in

sostanza fare dei delegati i terminali non delle organizzazioni sindacali, ma rappresentanti reali dei lavoratori, delle loro richieste ed dello loro esigenze.

Non ci sono altre possibilità per lavoratori. Dovrebbe essere chiaro a tutti oramai che la crisi non è affatto crisi finanziaria ne che dipenda dalla

speculazione seppure questa a sua volta alimenta il processo in un gorgo mortale.

Oltre 160 anni fa in maniera chiara e sintetica a proposito di un altrettanto periodo di crisi economica europea, ben altra penna di giornalista rispetto ai 

corsivisti nostrani descriveva la situazione:

“La speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei

canali di sbocco e per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della

speculazione e solo successivamente passa a quella della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo

un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell’osservatore superficiale come causa della crisi.

Il successivo dissesto della produzione non appare come conseguenza necessaria della sua stessa precedente esuberanza,ma  come semplice

contraccolpo del crollo della speculazione”  (5)   

Siamo quindi di fronte ad una eccedenza di merci che non garantiscono sufficienti profitti.

Tutte le economie hanno ampie capacità produttive in eccesso. E tutte le economie europee, compreso gli USA, stanno utilizzando politiche di

contenimento salariale, determinando così un ulteriore avvitamento di carattere recessivo, rendendo impossibile la stessa riduzione della percentuale

del debito pubblico sul PIL.

Lo scontro tra le diverse borghesie nazionali che si manifesta anche sui diversi tassi di interesse (spreed ) legati alle emissioni delle obbligazioni  e sui

crediti da recuperare si configura anche sul costo del lavoro.

Su questa strada non c’è alcuna possibilità di vincere una battaglia da parte del movimento operaio a meno che non si pensi di arrivare a livelli di salari

cinesi. Ma questo significherebbe  povertà assoluta e miseria.

La terapia proposta non può essere un richiamo continuo a stringere la cinghia ed a fare la nostra parte, in una logica di salvezza nazionale. 

Ne la richiesta di aumentare la produttività del nostro sistema economico può rappresentare la via di uscita. Se teoricamente una cosa del genere si

verificasse realmente e si producesse realmente  più merci la crisi accelererebbe.

Il capitalismo ha bisogno in questo momento di distruggere e di ridurre il valore delle merci, per poter successivamente ripartire con un  processo di

accumulazione ulteriore, garantendosi maggiori profitti.

Il capitalismo in altri  periodi storici ha risolto questa insita contraddizione con guerre e distruzioni immani o con lunghi periodi  di  deflazione, cioè

svalutazione costante del valore delle merci e dei capitali.

Il fatto che guerre  guerreggiate o deflazione continuata voglia dire, nella concretezza della vita reale, milioni di morti, distruzione di infrastrutture,

distruzione di manufatti, di fonti energetiche, menomazioni, invalidi, ed orrori indescrivibili sulla carne viva dei lavoratori e dei popoli che hanno la sciagura

di vivere in tali circostanze o chiusura di fabbriche, smantellamento di intere catene produttive, miseria, povertà, denutrimento, riduzione delle aspettative

di vita,  è per il capitale una cruda necessità, un effetto collaterale alla sua insaziabile sete di profitto.

La questione all’ordine del giorno è, o meglio dovrebbe essere, per delle organizzazioni di resistenza dei lavoratori, opporsi all’idea del siamo sulla stessa

barca e che sacrifici ulteriori per le masse lavoratrici siano necessari.

Il problema non è onorare il debito pubblico, che altro non è che fonte di rendita delle società finanziarie e delle grandi imprese a loro volta finanziarizzate,

perché è in questo settore, come ci ricordava il noto “giornalista” di 160 anni fa, che oggi si garantiscono maggiori profitti rispetto alla produzione.

Bisognerebbe  redistribuire o meglio recuperare sempre più quote di ricchezza prodotta con l’aumento dei salari a scapito dei profitti e delle rendite e

occorrerebbe ridistribuire il lavoro che c’è.

Sarebbe necessaria una battaglia per una forte riduzione dell’orario di lavoro a parità di paga, altro che continuare a rivendicare misure che rilancino

gli investimenti e che rispondano a criteri di crescita e di competitività.

Occorrerebbe tornare a riflettere lungamente su un monito, anch’esso scritto molto tempo fa , ma che mantiene intatta tuta la sua capacità di indicazione

così come la volontà di cambiamento e di rivolta  necessaria per non continuare a indicare politiche e battaglie che vedano la classe operaia, le sue

esigenze, i suo bisogni sconfitta e perdente.

“Gli operai non riescono proprio a capire che  sovraccaricandosi di lavoro,esauriscono le loro forze e quelle della loro progenie; che, usurati,

arrivano prima del tempo a essere incapaci di qualsiasi lavoro; che assorbiti, abbrutiti da un unico vizio, non sono più uomini, ma relitti umani;

che uccidono in se stessi tutte le belle facoltà per lasciare in piedi, lussureggiante, soltanto la follia furibonda del lavoro.

Ahimé! Come pappagalli dell’Arcadia ripetono la lezione degli economisti: lavoriamo, lavoriamo per accrescere la ricchezza nazionale.

Razza di idioti! E’ perché voi lavorate troppo che l’apparato industriale si sviluppa lentamente. Smettete di berciare e ascoltate un altro

economista – non è un aquila, è soltanto il signor L.Reybaud, che abbiamo avuto la fortuna di perdere qualche mese fa:  <<In generale,

la rivoluzione nei metodi di lavoro si regola sulle condizioni della manodopera. Finché  la manodopera fornisce i suoi servizi a prezzo basso,

la si prodiga; si cerca di risparmiarla quando i suoi servizi diventano più costosi>> ”. (6)

Note:
(1) Paul Lafargue – Il diritto all’ ozio. Confutazione del Diritto al lavoro -1880
(2)  K. Marx F. Engels - Il Manifesto del Partito Comunista 1848
(3) Dichiarazione di  S. Marchionne al Salone dell’Auto di Francoforte – 13/9/2011
(4) Documento conclusivo  CD CGIL 9/9/2011
(5) K. Marx – Neue Rheinische Zeitung - Ottobre 1850
(6) Paul Lafargue – Il diritto all’ ozio. Confutazione del Diritto al lavoro -1880

 

BILANCI E PROSPETTIVE PER L’OPPOSIZIONE INTERNA ALLA CGIL
Dopo il XVI congresso

Giulio Angeli


            Il XVI congresso della CGIL è stata una formidabile occasione  per affrontare efficacemente la più devastante crisi capitalistica

internazionale dal 1929 e per definire, al riguardo, un’adeguata ed efficace strategia d’intervento nel senso della difesa degli interessi dei

lavoratori e degli strati più deboli della società,  ma la logica burocratica degli apparati e dei gruppi dirigenti  ha prevalso sul movimento

reale e sulle sue mobilitazioni ed esigenze, pregiudicando i risultati congressuali. Sopratutto si è interrotto quell’attivo processo di critica

alle compatibilità con il sistema capitalista che in questi ultimi dieci anni aveva caratterizzato il ruolo e l'azione della storica opposizione

interna alla CGIL rappresentata da  “Lavoro e Società”, dal fondamentale ruolo di opposizione della FIOM e dalle lotte delle altre

categorie (scuola, università e ricerca, funzione pubblica, commercio), nel contesto delle forti mobilitazioni dei lavoratori, dei precari,

delle donne e degli studenti. 

Tutta questa opposizione sociale  ha contrastato nel concreto scelte ispirate alla moderazione salariale, (“svolta dell’EUR” del febbraio 1978, accordo

sulla politica dei redditi del luglio del 1993), scelte che hanno contribuito a indebolire il salario reale dei lavoratori e a non ostacolare efficacemente

l’attacco allo stato sociale e alla natura pubblica dei servizi, e che hanno esposto il mondo del lavoro alla piaga del  precariato iniziata, va ricordato,

con il “Pacchetto Treu” (L. 196/97).

            Questo comportamento inevitabilmente subalterno alle  leggi del mercato e alle compagini parlamentari e governative di centrosinistra e più in

generale, non ha contrastato la ristrutturazione capitalistica a scapito di un’equa distribuzione della ricchezza sociale prodotta che si è invece concentrata

nei profitti e nelle rendite, contemporaneamente agevolando la finanziarizzazione dell'economia.

            Ma il disastro della strategia riformista non ha indebolito solo i lavoratori e le classi sociali subalterne, le loro conquiste e i loro diritti, ma ha

travolto, indebolendola, anche l’organizzazione sindacale ostacolando l'unità dei lavoratori sempre più divisi dalle dinamiche della crisi, accelerando la

deriva neocorporativa di CISL e UIL, contemporaneamente contribuendo a rafforzare il comando capitalista sulla società reale e lasciando ampi spazi

all’iniziativa della destra anche all’interno dello schieramento di centrosinistra, là dove si è andata affermando una forte componente moderata.  

        
“Opposizione storica” e “nuova opposizione”

            Così come abbiamo  documentato (“Per un dibattito sull’opposizione interna alla CGIL” vedi “Difesa Sindacale” n. 3) è con

il XIV congresso (febbraio 2002) che la subalternità alle leggi del mercato capitalistico intrapresa dalla CGIL fin dal 1978 s’interrompe:

l’organizzazione  inaugura una linea nuova che, sia pure tra innumerevoli contraddizioni, si pone in discontinuità con le precedenti

politiche concertative perseguite per oltre un trentennio.

            Dovrà certamente essere analizzata nel dettaglio la deriva che ha condotto il gruppo dirigente di “LS” a convergere  con i settori più moderati

della CGIL in una “nuova maggioranza”, fino al sostegno aperto dell’accordo del 28 di giugno us,  così come dovrà essere attentamente analizzata l’intera

transizione che ha caratterizzato la FIOM la quale, superando la vecchia caratterizzazione di sindacato categoriale moderato e concertativo, ha saputo

esprimere i livelli più avanzati  della lotta sindacale nel nostro paese.

            Queste riflessioni sono oggi essenziali per evitare di liquidare esperienze di opposizione di classe appiattendole sulle scelte di apparato dei

rispettivi gruppi dirigenti. Il progressivo dissolversi di “LS” nella maggioranza moderata non tira con se tutta l’area programmatica, poiché nei territori e

anche nei relativi gruppi dirigenti questa deriva è contrastata  da numerosissimi compagni. Così come l’intera esperienza FIOM non si risolve

esclusivamente in quella dell'area programmatica “La CGIL che vogliamo” (Moz. 2) che, semmai, rappresenta solo un tentativo di rappresentarla.

D’altronde il ruolo svolto dalla nuova minoranza rappresentata dalla “Moz. 2” si dimostra sempre più marginale proprio perché risulta subordinato al ruolo

della FIOM e alle sue esigenze e priorità categoriali che, inevitabilmente, non possono che risultare compresse in un’area programmatica.

            In realtà il tentativo di aggregare le categorie, tentativo che la Moz. n. 2 ha intrapreso alla vigilia del XVI congresso (metalmeccanici, funzione

pubblica, credito e assicurazioni, rispettivamente FIOM – FISAC – FP) è risultato politicamente miope proprio perché un’opposizione sindacale, per

essere costruttiva, non può che essere trasversale all’organizzazione, coinvolgendo tutte le istanze di opposizione centrali e periferiche al fine di radicandosi

nelle categorie ma, sopratutto, nei territori così com’è avvenuto per “LS” nelle sue stagioni migliori. Così è stato che, vincendo il congresso nella sola

FIOM, perdendolo nelle altre due categorie di riferimento (FP e FISAC) e ottenendo risultati modesti nelle restanti categorie, la Moz. 2, l’unica

mozione di opposizione, è risultata ridimensionata in qualità e quantità,  divenendo una inevitabile conseguenza  della FIOM, con un’autonomia e una

agibilità estremamente limitate.

Le contraddizioni del gruppo dirigente

            Come compagni di “Difesa Sindacale” abbiamo salutato lo sciopero generale del 6 settembre us con grande entusiasmo, ma non

possiamo evitare di sottolineare tutte le sue contraddizioni, che si ricollegano a quanto abbiamo già affermato poco sopra.

Lo sciopero è stato doveroso, è pure riuscito e ha intercettato perfettamente il malcontento esistente nel paese, ma è riuscito

indipendentemente dalle capacità organizzative della CGIL che non sono state all'altezza della situazione, così com’è invece avvenuto

in altre circostanze di lotta.

            Crediamo che questo allarmante sintomo debba essere colto e valutato attentamente poiché è la diretta conseguenza dello sbandamento del

gruppo dirigente nazionale, che prima firma un accordo regressivo quale è quello del 28 di giugno, firma accompagnata per altro da dichiarazioni

abbastanza roboanti del tipo “sconfitta la linea Marchionne”, che rimandavano a una volontà di auto convincimento che ci è sembrata del tutto fuori

luogo e poi, visto che l'accordo esprimeva al massimo la metafora del bicchiere pieno per metà che poteva essere ritenuto legittimamente “mezzo pieno”

o “mezzo vuoto”, constatando poi che i rapporti di forza tra capitale e lavoro non tiravano certo nel senso auspicato dal gruppo dirigente della CGIL

questi indice uno sciopero generale praticamente in tempo reale, un attimo prima del baratro dell'assimilazione definitiva con CISL e UIL. 

Apprezziamo lo scatto, condivisibilmente volto a recuperare quell'iniziativa politica e sindacale che l'accordo del 28 di giugno invece archiviava, 

ma allora:  non sarebbe stato più chiaro e coerente non firmare il documento del 28 di giugno riservandosi di indire uno sciopero generale dopo una

capillare azione di mobilitazione e di informazione che rispondesse colpo su colpo all'azione demolitrice dei diritti, della rappresentanze e delle tutele

intrapresa dal padronato, dal governo e avallata da CISL e UIL? La risposta a questa domanda retorica risiede certamente nelle indubbie pressioni delle

componenti più moderate del Partito Democratico sull'intera CGIL per un suo rapido riallineamento con CISL e UIL, quale presupposto  per l'azione di

un nuovo governo di centrosinistra neoliberista, concertativo e naturalmente subalterno all'Europa dei banchieri e alle leggi del mercato, ma risiede anche

nella debolezza di un gruppo dirigente espressione di un congresso insufficiente, che non ha efficacemente affrontato le origini e le caratteristiche della crisi,

pregiudicandosi così la possibilità di sviluppare una strategia sindacale credibile proprio perché ha scelto  di non valorizzare l'opposizione sociale esistente

nel paese e, in questo senso, anche le opposizioni vecchie e nuove non hanno prodotto alcun contributo costruttivo. Obiettare a questo grave limite con

l'affermazione “ma la CGIL la linea ce l'ha” tirando poi fuori le proposte contro la manovra del governo, significa solo confondere gli obiettivi con la

strategia, che è proprio quella che invece difetta. Questo deficit non può essere surrogato  da una tendenza alla concretezza, sia pure auspicabile: esso

rimane comunque una grave lacuna che può indebolirci rapidamente.
 
Un percorso per aggregare l’opposizione di classe nella CGIL

            Le dinamiche della crisi nel contesto dell’aspro scontro tra le principali potenze imperialistiche pongono in seria difficoltà, in tutti

i paesi a capitalismo maturo, il modello di organizzazione sindacale così come si è replicato fino a oggi e, quindi, la possibilità di difendere

gli interessi e i diritti dei lavoratori e delle classi subalterne paese per paese. 

            C'è, di fronte a noi, una grossa crisi di rappresentanza quale conseguenza dei nuovi assetti di classe indotti dalla ristrutturazione capitalistica, che

la CGIL deve saper affrontare con urgenza.

            Questa urgenza investe in primissima istanza  tutti i compagni della CGIL che si riconoscono in una linea di classe, a prescindere  dalla loro

appartenenza a “LS” o alla “Moz. 2”. E’ da questo diffuso tessuto ancora radicato nelle categorie e nei territori che deve svilupparsi una proposta di

difesa degli interessi dei lavoratori e delle componenti sociali più deboli, una proposta  capace di superare i vecchi e ormai arretrati schieramenti, così

come si sono definiti tra i limiti del XVI congresso, per riqualificare il ruolo della CGIL.

            Una proposta che incida anche sulle capacità di elaborazione politica di tutto quel tessuto militante che, sia pure attendendo alle necessità del

quotidiano, guarda al futuro dell’organizzazione sindacale non con una logica limitata, subalterna e “nazionale” ma con una forte caratterizzazione

internazionalista, per un sindacato e per i contratti europei, che uniscano e non dividano i lavoratori d’Europa contro le disgreganti tendenze che vedono

accrescere il ruolo di rapina del capitale finanziario.